Il Tribunale di Roma (sezioni semplici e sezione antitrust, tra cui sent. nn. 22453/2019, 3165/2020, 4155/2020, 7303/2020 consultabili su questo portale) ha adottato un orientamento contrario alla tutela antitrust del fideiussore schema ABI e in contrasto con le sentenze della Corte di Giustizia in primis, ma anche con quelle della Cassazione. Si tratta quindi di un orientamento che in concreto pone i giudici nella situazione di potenziale responsabilità personale per violazione del diritto dell’Unione (ex artt. 3 e 3 bis della L. 117/1988).

Andiamo con ordine.

I Giudici romani negano la tutela al fideiussore schema ABI sulla base di due considerazioni, entrambe errate, ossia:

  1. necessità del garante di provare l’utilizzo uniforme dello schema ABI 
  2. previsione di una tutela esclusivamente risarcitoria a favore dell’utente finale di un cartello tra imprese, atteso che non sussisterebbe alcun collegamento “in senso tecnico” tra l’intesa vietata (“a monte”) e i contratti attuativi dell’intesa (“a valle”).

Sul primo punto (necessità di provare l’uniforme applicazione dello schema ABI), dopo che anche la sezione antitrust di Milano (sentenza n. 2949/2020, come le sezioni semplici sent. nn. 610/2020, 2637/2020 e la Corte di Appello meneghine sent. n. 192/2020, tutte edite su questo portale) ha riconosciuto l’erroneità di tale assunto, era legittimo attendersi che Roma non necessitasse di ulteriori occasioni per applicare correttamente il diritto antitrust. D’altra parte spesso e volentieri i Giudici di Roma citano le sentenze del Tribunale di Milano anche più risalenti e superate.

La calma è la virtù dei forti, ma il problema è che tanti garanti non hanno le concrete possibilità di appellare sentenze ingiuste.

Quando il diritto non viene applicato in modo corretto, non siamo all’interno solamente di una diatriba dottrinale, di un salotto del diritto, in cui vince chi argomenta più dottamente, quando non si applica il diritto in modo corretto qualcuno perde tutto.

Questo il motivo per cui, oltre forse a non avere le medesime dotte capacità degli illustri giudici romani (ma, molto sommessamente, studiando senza sosta anche il diritto UE all’Università di Milano), cercheremo di andare al nocciolo della questione in modo semplice.

Partiamo quindi dall’inizio.

Il provvedimento n.55 del 2005 sulle fideiussioni è un provvedimento antitrust (Cass. n.24044/2019) definitivo, ossia non può più essere messo in discussione, acquistando la forza di un giudicato.

Persino i costituzionalisti hanno dovuto farsi una ragione del fatto che in questa materia, per la derivazione unionale che ha, il Giudice è soggetto non solo alla legge, ma anche ad un provvedimento amministrativo (appunto il provvedimento antitrust).

Questa è la peculiarità dell’integrazione tra ordinamenti e della cessione parziale di sovranità, a cui ci siamo obbligati come Stati reciprocamente, istituendo l’Unione europea e quindi sottoscrivendone i relativi trattati.

Dire che il provvedimento antitrust sulle fideiussioni è definitivo vuol dire che:

  • nessun giudice può sindacare se abbia senso, o meno, discutere di concorrenza con riferimento al “mercato” delle fideiussioni (su questo punto il Tribunale di Verona con una recente sentenza edita sul portale www.expartecreditoris.it compie un errore marchiano facilmente appellabile) 
  • l’uniforme applicazione dello schema ABI non rientra negli oneri probatori a carico del soggetto leso e ciò perché l’intesa tra banche associate all’ABI è stata accertata e dichiarata dall’Autorità Antitrust (Provv. 55/05), che ne ha rilevato una gravità tale da non necessitare ulteriori accertamenti rispetto a quelli svolti e descritti nel citato provvedimento. Questa è la possibilità che il diritto antitrust lascia all’autorità garante della concorrenza, come chiarito in molteplici sentenze dalla CG (ne abbiamo parlato nell’articolo che trovate a questo link http://gladyscastellano.it/2020/04/07/armonia-tra-cassazione-e-corte-di-giustizia/)

Peraltro è noto che l’uniforme applicazione c’è stata e gli scriventi sono in grado di provarla (anche con la produzione di centinaia e centinaia di fideiussioni tutte conformi allo schema ABI fatte firmare in ogni angolo di questo Paese senza soluzione di continuità negli ultimi 30 anni).

Sgombrato quindi il campo dalle prime soluzioni errate, in cui potrebbe cadere l’interprete meno attento, l’attenzione va ora concentrata sul motivo per cui la tutela del fideiussore schema ABI non possa essere solo quella risarcitoria (ne abbiamo parlato nella dispensa e nel webinar che potrete consultare a questo link https://academy.unionlaw.it/ e a cui rinviamo per una più compiuta trattazione, impossibile in questa sede).

La Legge 287/1990 è una legge fondamentale di diretta derivazione unionale e la sua applicazione deve avvenire nel nostro ordinamento in modo conforme ai dettami della Corte di Giustizia, che è l’unico organo deputato all’interpretazione del diritto dell’unione. 

È chiaro l’art 1, c. 4 della Legge 287/1990 quando afferma che: «L’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza». 

Il motivo per cui la legge interna deve essere interpretata in maniera conforme a quella unionale è presto detto: per la creazione del mercato interno dell’Unione è necessario che le norme in materia di concorrenza siano applicate in maniera uniforme secondo i principi delineati dalla CG.

Questo il senso dell’art.3 TUE paragrafo 3

«L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico».

Ogni giudice nazionale, a maggior ragione se adito in funzioni di giudice antitrust, ha dunque l’obbligo di applicare il diritto antitrust alla luce dei principi espressi sul tema dalla Corte di Giustizia, essendo tra l’altro il diritto antitrust un insieme di regole volte alla realizzazione dei principi su cui si fonda l’Unione.

Non pare superfluo a questo punto ricordare a tutti noi che gli stati membri sono OBBLIGATI a fornire tutela effettiva nelle materie che siano di competenza esclusiva e concorrente dell’Unione, quale è il diritto antitrust (art. 19 TUE).

In mancanza di tutela effettiva lo Stato e i magistrati stessi sono posti in condizione di essere sanzionati.

E allora vediamo come interpreta il diritto antitrust la Corte di Giustizia, perché l’interpretazione che dà la Corte, lo ripeteremo fino alla noia, è l’interpretazione che i Giudici degli stati membri DEVONO adottare, pena la loro RESPONSABILITÀ. 

Sin da tempo risalente la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha riconosciuto agli utenti finali (oltre che agli imprenditori) la legittimazione a far valere la violazione della normativa dettata a tutela della concorrenza per come configurata nel suo impianto sostanziale, affermando che, posto che la nullità sancita dalle norme del trattato che tutelano la concorrenza è una nullità assoluta, la sanzione non può che abbracciare qualsiasi situazione che realizzi, in modo diretto o indiretto, a livello negoziale o comportamentale, la restrizione della concorrenza.

La sanzione della nullità assoluta e che priva di ogni effetto, passato o futuro, l’accordo lesivo della concorrenza colpisce pertanto non solo l’accordo originario concluso tra le imprese, ma anche qualsiasi sua esplicazione verso i terzi ed anche gli utenti finali, ai quali tanto l’accordo originario quanto la sua esplicazione, in qualsiasi modo essa avvenga, è per legge inopponibile. E ciò a maggior ragione se i terzi sono i destinatari dell’intesa antimonopolistica avente per oggetto la fissazione di condizioni contrattuali che contraddistinguono la natura del prodotto e/o del servizio e poi da ciascuna impresa (aderente all’accordo) attuate con i singoli utenti finali del mercato.

Il tutto fermo restando, ad ogni modo, l’ulteriore diritto del singolo utente del mercato (a detrimento del quale è stata attuata l’intesa illecita) ad ottenere in queste ipotesi anche (ma non solo) il risarcimento del danno procuratigli dalla violazione della normativa anticoncorrenziale.

Si vedano in questo senso i principi espressi dalla Corte di Giustizia già nella sentenza del 25.11.1971, C-22/71; sentenza del 6.02.1973 C-48/72; sentenza del 20.09.2001 C-453/99 e anche nella sentenza del 13.07.2006 resa nella causa C- 295-04 (Manfredi). 

In particolare in quest’ultima sentenza la Corte di Giustizia, in linea di continuità con la propria giurisprudenza, ribadisce chiaramente che:

– il diritto comunitario, e in particolare l’art. 81 TCE (oggi art. 101 TFUE corrispondente al nostro art. 2 L. 287/1990), ha efficacia diretta e crea automaticamente diritti in capo ai singoli soggetti che il giudice nazionale deve tutelare in forza del primato del diritto comunitario;

– l’art. 81 TCE prevede una nullità assoluta della intesa o della pratica posta in essere in violazione della normativa della concorrenza con la conseguenza che l’accordo posto a monte della distorsione non è valido tra i contraenti, è insuscettibile di esecuzione in qualsiasi modo e non è opponibile a terzi, con elisione pertanto di ogni effetto passato e futuro; 

– la violazione della normativa antitrust può essere fatta valere da chiunque in giudizio, con la conseguenza che il singolo individuo può invocare la nullità dell’accordo (a monte ed a valle realizzante la distorsione della concorrenza) o di una qualsiasi pratica vietata innanzi il giudice nazionale;

– una volta accertata la nullità dell’intesa con rimozione di ogni suo effetto (a monte ed a valle), il singolo utente ha quindi successivamente la possibilità anche di richiedere il risarcimento dell’ulteriore danno causato dal contratto o da un comportamento idoneo a restringere la concorrenza quando esiste, e viene dimostrato, un nesso di causalità tra tale danno (ulteriore) e l’intesa illecita.

La “nostra” Suprema Corte già con pronuncia n. 11564/2015 (Pres. Rordorf) aveva avuto modo di chiarire urbi et orbi che: 

i) i giudici nazionali hanno l’obbligo di dare concreta attuazione dei principi in materia di disciplina della concorrenza in ambito unionale per quanto imposto anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (espressione, come è noto, del principio della effettività della tutela giurisdizionale)

ii) la violazione della disciplina antitrust, per come rafforzata in ambito europeo anche dalla Direttiva 26.11.2014, n. 104 (recepita nel nostro ordinamento dal D. lgs 3/2017), non comporta per il singolo solo la possibilità di attivare il risarcimento del danno, ma altresì la possibilità di azionare, naturalmente e logicamente per prima, la «nullità contrattuale», e a presidio della quale sono stati rafforzati in questo ambito i poteri anche istruttori del giudice antitrust. 

Si tratta del resto di una presa di posizione che è stata assunta dalla Cassazione a partire dalla nota sentenza resa a Sezioni Unite n. 2207/2005, cui tutte le pronunce successive della Corte si sono adeguate, e per cui difatti, in caso di violazione delle norme dettate a tutela della concorrenza, il singolo utente finale ha a propria disposizione non solo una tutela risarcitoria ma anche una tutela “reale”.

Il singolo utente finale difatti ha legittimazione ad esperire l’azione di accertamento della nullità prevista dall’art. 33, c. 2 della Legge 287/1990 tanto dell’accordo contrattuale “a monte” quanto del contratto “a valle “stipulato in aderenza al primo. E ciò in quanto, posto che il contratto “a valle” è lo strumento con cui si chiude e si attua l’intesa “a monte”, «a detto strumento [il contratto “a valle”] non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa [“a monte”] che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile» (così: par. 1.f) Cass. S.U., 2207/2005).

Diversamente opinando (con la creazione di due rilievi distinti tra intesa “a monte” e contratto “a valle” e che invece vanno ricondotti alla medesima unitaria operazione realizzante la distorsione del mercato, per quanto presupposto dal diritto antitrust) resterebbe frustata la ratio sottesa alla normativa imperativa dettata a tutela della concorrenza, in ambito sia unionale che nazionale. 

Come è stato spiegato dai nostri Ermellini, la ratio della nullità ai sensi dell’art. 33 della L. 287/1990, in conformità al diritto unionale, è quella di «togliere alla volontà anticoncorrenziale a monte ogni funzione di copertura funzionale dei comportamenti a valle». «Il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso della intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante»: per modo che «teorizzare la profonda cesura tra contratto a monte e contratto a valle, per derivarne che in via generale la prova dell’uno non può mai costituire anche prova dell’altro, significa negare l’intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale è posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato» (v. Cass., S.U. 2207/2005; v. Cass., 13846/2019).

La legittimazione ad invocare la nullità della intesa “a valle” che attua l’intesa “a monte” (quale operazione unitaria realizzante la restrizione della concorrenza, senza che contro per contro possa sostenersene una distinzione per il diritto antitrust) non spetta pertanto ai soli imprenditori e ogni diversa soluzione comporta diniego di tutela giurisdizionale effettiva ai singoli individui e che i giudici nazionali, a maggior ragione se aditi in funzione di giudice antitrust, hanno l’obbligo precipuo di assicurare: pena la violazione dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dell’art. 6 della CEDU (v. art. 6 TUE), ma soprattutto dell’art.19 TUE che obbliga gli stati e i suoi organi, quindi certamente anche i Giudici, ad una tutela giudiziale EFFETTIVA.

Discutere quindi di collegamento necessario, di nullità derivata, di distinzione tra regole di comportamento e regole che attengono alla validità è completamente anacronistico e in palese contrasto con il giudicato antitrust.

Tutti, i giudici in primis, ma anche noi avvocati, dobbiamo renderci conto che il diritto dell’unione, a cui siamo soggetti, è un diritto che si regge su criteri di interpretazione su cui svetta il CRITERIO TELEOLOGICO, detto anche principio dell’effetto utile. Viene individuato l’effetto che la normativa persegue (un’economia di mercato fortemente competitiva) e, tenendo questa stella cometa, va interpretato il diritto.

In questa prospettiva i discorsi su nullità derivata e/o collegamento in senso tecnico tra intesta a monte e contratto a valle risultano abnormi ed inutili, perché già superati dai competenti organi in corretta cooperazione istituzionale ed unionale. 

Siamo solo noi a sentire una nota stonata?

Continuare a dar corso ad orientamenti palesemente in contrasto con il diritto UE, infatti, genera plurimi ed enormi danni:

  • danni al garante (privato della tutela effettiva e/o onerato di costi ingenti per gli appelli del caso, fino anche al ricorso in Corte di Giustizia);
  • danni allo Stato (passibile di censure e condanne dall’UE ex 258 TFUE, anche per le possibili denunce in Commissione Europea);
  • danni al magistrato (passibile di responsabilità disciplinare ed erariale per i potenziali danni così recati alla Stato);
  • danni alla Giustizia tutta (perché così facendo, chiaramente, si alimenta il contenzioso).

Forza, il diritto dell’Unione è diritto di efficacia e siamo certi che anche a Roma le cose cambieranno (res melius perpensa), perché una Giustizia tardiva è, comunque, meglio di una Giustizia negata.

Avv. Gladys Castellano

Avv. Maria Laura Ficola

Avv. Nicola Stiaffini

Avv. Armida Dal Bo

Bergamo, Foligno, Livorno, Treviso, lì 13 Novembre 2020

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